Storie di Roma per bambini: elefanti di Roma
Elefante Annone e il rione a lui dedicato
Non solo per la sua mole, ma anche per la sua intelligenza e per gli “esercizi” ai quali era stato addestrato, l’elefante Annone divenne un “personaggio” assai popolare nella Roma rinascimentale. Venne donato a papa Leone X (1513-1521) dal re del Portogallo Manuel de Aviz e fu accolto con tutti gli onori in Vaticano il 12 marzo 1514. Il simpatico pachiderma (il cui nome gli fu assegnato dal pontefice, che lo volle chiamare Annone, come il generale di Annibale) ebbe un trattamento da principe: una stalla speciale, un alto funzionario preposto alla sua custodia e al controllo di tutti i suoi movimenti e personale qualificato esclusivamente addetto al suo servizio. E la zona del rione Sant’Angelo dove era facile incontrare il vistoso animale divenne in breve tempo talmente famosa da assumere la denominazione di “Rione dell’Elefante”. I romani accorrevano in gran numero ad ammirarlo, non riuscendo a credere – come riferisce un cronista dell’epoca – che una bestia «fusse cusì mirabilmente grande». Ma il povero Annone, non abituato alla vita monotona e sfarzosa che gli era stata riservata, certamente rimpiangendo le lontane meravigliose foreste del Ceylon donde proveniva, morì forse di malinconia, circa due anni dopo, il 16 giugno 1516.
Molti artisti dell’epoca, richiamati dalla sua straordinaria popolarità, ne avevano nel frattempo ritratto l’immagine in numerose loro opere. La più nota immagine di Annone è quella raffigurata in una magnifica tarsia, eseguita da Giovanni da Udine su cartone di Raffaello, in una delle porte esistenti tra la “Stanza della Segnatura” e la “Stanza di Eliodoro” in Vaticano.
Elefante della Minerva
Durante il pontificato di Alessandro VII (1655-1667), nell’orto dei padri Domenicani alla Minerva, fu ritrovato un obelisco egiziano di modesta altezza ma di rilevante valore storico. Esso aveva in precedenza ornato il tempio di Iside in Campo Marzio ed è contemporaneo alla prima distruzione di Gerusalemme avvenuta per opera di Nabucodonosor nell’anno 537 a.C.; reca inoltre il nome del faraone Uohatra, l’ultimo sovrano dell’Egitto indipendente. Deve essere perciò considerato come il “canto del cigno” della trimillenaria potenza faraonica.
Alessandro VII pensò di servirsene per innalzarlo davanti alla chiesa di S. Maria sopra Minerva, la più vicina al luogo dov’era avvenuto il recupero. E rammentando come il Bernini avesse saputo utilizzare un altro grande obelisco per costruire l’imponente complesso della fontana dei Fiumi in piazza Navona, decise di affidare a lui la nuova opera. Il grande artista presentò al pontefice numerosi bozzetti, ma poi concordarono di far poggiare l’obelisco verticalmente sulla groppa di un elefantino, così come oggi lo vediamo. Il papa volle che all’epigrafe storica incisa sul fianco destro del basamento, fosse aggiunta, sull’altro lato, la seguente elegante e ammonitrice iscrizione da lui stesso dettata e che dice, tradotta dal latino: Chiunque tu sia, puoi qui vedere che le figurazioni – i geroglifici – del sapiente Egitto scolpite nell’obelisco, sono sorrette da un elefante, il più forte degli animali; intendi l’ammonizione: è proprio di una robusta mente sostenere una solida sapienza.
Al suo completamento, il Bernini collocò il piccolo elefante sul piedistallo, al centro della piazza, nella esatta posizione in cui tuttora si trova. L’elefante è detto volgarmente il pulcin della Minerva, non già per le sue ridotte dimensioni, ma per il deterioramento subìto da una parola per bocca del popolino romano che per la sua grassezza battezzò il pachiderma “porcellino”, da cui derivò porcino e quindi pulcino.